Coach Sasha Djordjevic: “La Virtus deve avere continuità ad alto livello”

Il coach della Segafredo Virtus Bologna Sasha Djordjevic è stato ospite della diretta live sulla pagine Facebook di Eurodevotion.

Ecco le sue dichiarazioni:

Sul confronto delle sue soddisfazioni da giocatore e da allenatore…

«Da allenatore non sono mai soddisfatto, anche subito dopo una vittoria io penso alla gara successiva da vincere. Non sono mai contento. I giudizi li lascio agli altri. Come giocatore sono stato questo, quello che ho fatto è lì, sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto. E’ quello che potevo fare, ma c’erano anche gli avversari…»

Sulle vittorie in Eurolega che potrebbero mancargli…

«No, non mi mancano, c’è abbondanza di Korac e di medaglie…»

Sul passaggio dal campo alla panchina ed il vantaggio di essere stato un playmaker…

«Mi ha aiutato tantissimo perché ero già da giocatore uno studioso del gioco. Non ero un atleta dominante, quindi dovevo fare del mio IQ cestistico la mia caratteristica principale».

«Una volta ritirato, guardavo le partite dagli spalti, ma quando scendevo sul campo vedevo che c’era un tocco magico nella mia anima ed allora il fuoco si riaccendeva».

Sui Mondiali di Bormio del 1987, forse i più ricchi di talento di sempre. La Yugoslavia contro gli USA di Larry Brown con Gary Payton, Larry Johnson e Stacey Augmon, nonché l’Italia di Pittis, Gentile, Niccolai, Pessina…

«I Mondiali di Bormio, stracolmi di talento (ndr Kukoc, Radja, Divac, Pavicevic, Pecarski e Sasha), sono stati il primo reale momento in cui tra FIBA ed NBA si è aperto il mondo del basket. Si è capito che si giocava a basket molto bene anche fuori dagli USA. Poi ci sono state altre generazioni giovanili di grande talento, come gli spagnoli od i greci».

Sul primo Obradovic in panchina ed i segnali che potesse diventare il più grande…

«Lo vedevi da subito, la sua aspirazione e la sua voglia erano uniche. E’ un simbolo, possiamo solo imparare da lui. Per me è il migliore»

Sulla difficoltà degli anni della guerra in Yugoslavia e del fatto di ritrovare come rivali ex compagni di nazionale in una situazione così delicata. Quella tripla contro la Croazia nel 1997…

«La gara contro la Croazia del 1997 è stata la prima di tutti gli sport tra le due nazioni. Potete immaginare le emozioni di quel canestro incredibile. C’era una brutta aria, volevamo tenerci fuori e concentrati solo sulla rivalità sportiva, ma era impossibile, c’era una guerra. Però ti dico che da anni noi della squadra di Bormio 1987 abbiamo una chat in cui ci siamo tutti, scherziamo e ne spariamo di ogni tipo quotidianamente. Sono orgoglioso di essere stato il capitano di quei ragazzi e credo sia un bell’esempio per tutto lo sport. Oggi fortunatamente è tutto molto lontano e superato».

Sul taglio dai Celtics quando gli venne preferito Brian Shaw (ndr per noi bestemmia cestistica)…

«Ho fatto il camp dei free agent, cercavano un play dopo il ritiro di Dennis Johnson e dopo aver mandato Danny Ainge a Phoenix. Shaw era al Messaggero ma Boston lo voleva indietro. Tre giorni prima del veteran camp tornò Brian Shaw ed allora c’era un posto in meno. Un giorno prima dell’inizio della stagione regolare mi hanno preferito Shaw. Tornai a Belgrado molto migliorato perchè ho lavorato per 4-5 mesi velocizzando il mio gioco e la mia atleticità».

Sul “vizietto” di mettere spessissimo i tiri decisivi in carriera…

«Non ho mai finito un allenamento od una partitella ai giardinetti senza allenare questi tiri, inventandomi ogni cosa possibile. Ma come dice Michael Jordan ne metti tanti tanti perchè ne hai sbagliati anche tanti. La fiducia poi te la devi guadagnare dai compagni ogni giorno lavorando. Quello contro la Croazia di cui abbiamo parlato, piuttosto che quello contro la Joventut per vincere l’Eurolega sono tra quelli che ricordo di più, senza dimenticare quello di Ruben Douglas a Milano, con lo scudetto della Fortitudo all’instant replay. Quelli sbagliati? Mah, tanti, ci sono stati ma non li ricordo in particolare. Come dite voi “chi di spada ferisce, di spada perisce”…».

Sul passagio diretto da Barcellona a Madrid e, non immediato, dalla Fortitudo alla Virtus…

«Professionalità è la parola chiave, è l’unica cosa che si può realmente misurare insieme alle statistiche e le persone attorno a te la apprezzano e la possono valutare. C’erano motivi particolari, ad esempio a Barcellona Aito non mi ha voluto confermare ed allora ho fatto le valigie e sono andato dove mi volevano».

Sulle emozioni del ritorno a Belgrado con la Virtus e quella “standing ovation” infinita…

«Un grande orgoglio. E’ stato speciale, per me cresciuto come tifoso del Partizan di Kicanovic e Dalipagic. E’ stata una serata di cui sarò eternamente grato: quei 18 mila non sanno quanto orgoglioso mi hanno reso e resto in debito con loro. Il Partizan è sicuramente la mia squadra del cuore».

Sul professionismo e sul fatto che “la casa è dove si lavora”…

«Sono orgogliosamente serbo, di Belgrado, educato e cresciuto lì. Continuerò ad esserlo ma oggi il mondo si è ristretto, possiamo trovarci da tutte le parti facilmente. Ho amici ovunque. nel mio lavoro siamo leader di persone e dobbiamo essere positivi e propositivi nell’ambiente. La  mia casa è a Milano, che ho scelto, ma oggi sono a Bologna e ne sono felice. Ci vuole orizzontalità del pensiero e fame di conoscere quello che c’è intorno».

Sull’arrivo alla Virtus ed il processo di crescita del club sotto ogni punto di vista…

«Dal primo contatto ho sempre espresso la mia visione su dove la Virtus debba andare ed a cosa debba aspirare. La crescita deve essere legata al fatto che c’è una storia che va sfidata e sto cercando di farlo. Ho trovato una squadra che era tra le ultime negli assist, che vuol dire non giocare insieme, che si giocava per troppe cose personali, ma la Virtus deve avere come valore più importante la crescita societaria e gli obiettivi sportivi, cioè raggiungere le finali e vincerle. La Champions è stata ottima per qualità di gioco e per come stavamo insieme. In estate abbiamo disegnato un certo inizio che deve essere il futuro prossimo, aggiungendo i veri artefici che sono i giocatori. Abbiamo aggiunto qualità sul campo, per gli obiettivi e la visione del gruppo Segafredo e del Dottor Zanetti. La Virtus deve avere continuità ad alto livello. Spero di aver trasmesso la mia “pazzia” di cercare di giocarsela sempre coi migliori».

Sulla rivalità crescente con Milano, le schermaglie dialettiche con Messina ed i vantaggi che può dare al basket italiano…

«Milano è una società gloriosa, tra le principali in Europa, con un proprietario che continua a credere in questo bellissimo gioco,. E’ un duello che tutti vorrebbero vedere. Ma senza dimenticare il grande lavoro di una bella realtà come Venezia, basta vederi i risultati, il ritorno di grandi piazze in A come Treviso, la stessa Fortitudo, poi c’è sempre Sassari. Ok il duello ma ciò che fa la differenza sono i campioni ed è bello vedere oggi il ritorno di Messina come l’arrivo dei vari  Teodosic, Scola, Rodriguez che sono quelli che dobbiamo continuare a riportare in Italia come ai tempi di Dawkisn, McAdoo, Sugar, Rivers, Wilkins, Kukoc, Radja, tutta gente che faceva la differenza nel mondo. Noi abbiamo scommesso su un campione come Teodosic che ha fatto crescere gli altri e tutto un ambiente che ha capito che si cresce attorno ad uno come lui. Da lì la gente si innamora, i media scrivono… Noi siamo accessori come gli spoiler sulle macchine: non bastano quelli, è necessario che ci sia una base ed allora possiamo rendere la macchina più bella».

«La crescita è legata alla Nazionale. I risultati devono essere continui e non solo meteore come capitato in Italia. Solo così tutti vedrebbero questa enorme qualità del nostro sport. La Nazionale è il mezzo di comunicazione più grande che ci sia. Non è solo Eurolega o Champions, la pallacanestro è cresciuta negli anni vedendo gente che gioca per la sua nazione con cuore e sacrificio».

Sull’importanza di Markovic come equilibratore di squadra ed in coppia con Teodosic…

«Sono molto diversi ma stanno in campo benissimo insieme. Uno con un talento imprevedibile totale, l’altro con un carattere d’acciaio, l’animale che cerca le prede in ogni momento sul campo. E’ un mix che mi piace piace da sempre. Ottima stagione fatta, ma ce ne aspetta un’altra, forse anche la fine di questa, quindi c’è tanta strada da fare».

Su Pajola, che a noi ricorda, nella postura difensiva, Diamantidis…

«Ora lui sa cosa deve fare, abbiamo impostato un lavoro che non lo fa scappare dalla palestra neanche un giorno. Il grande ostacolo dei giovani arriva dopo il salto dalle giovanili, quando entrano nella competizione vera in cui i corpi sono incredibili ai livelli più alti. La fisicità è il mio obiettivo numero uno per tutti i giovani. Ma lasciamelo in pace, non mettergli un marchio come Diamantidis… Diamogli un obiettivo un po’ più basso, poi magari ci arriva e deve aspirare ad avvicinarsi ai più grandi, cosa importantissima».

Su cosa può mancare alla sua Virtus in caso di approdo in Eurolega…

«I “se” non mi piacciono molto… Abbiamo queste opzioni, di cui una sportiva molto dura perchè ci sono squadre fortissime. Stiamo però lavorando sulla fisicità, sull’esplosività, sullo smaltire la massa grassa etc. Certamente il livello delle prime 8-10 squadre di EL è alto da questo punto di vista, quindi dobbiamo crescere molto».

Sul livello della LBA…

«Oggi abbiamo questo nemico imprevisto, il virus, ma non deve esser scusa per non continuare a crescere. Pochi paroloni tipo spettacolo, ma tanto lavoro: se i giocatori migliorano, il prodotto basket diventa molto migliore. Il sogno dei giovani è la Nazionale? Bene, ma è solo una parte. Devi vestire quella maglia per vincere. Dobbiamo porre tanti obiettivi ambiziosi davanti ai giovani».

Sulla Milano città, che ha sempre dichiarato di amare..

«Mi piace l’internazionalità degli ultimi anni, l’architettura spettacolare dei nuovi grattacieli. Dopo l’Expo Milano ha proseguito la crescita, che era a rischio dopo la crisi del 2008. Mi piace Brera, Corso Como, la Galleria, vado in bicicletta sui Navigli… Sono tante le cose di Milano che  amo».